Francesco Russo, Antropologia delle relazioni , Armando, Roma 2019, pp. 160.

La persona umana è un essere costitutivamente e originariamente relazionale, nasce in relazione con l’amore divino e nel plesso originario figlio/a-padre-madre. Non c’è dimensione umana che esuli da questa apertura relazionale: la corporeità, specialmente con la sessualità che la contrassegna, la volontà come capacità di amare, la conoscenza con la sua intenzionalità, il linguaggio, ecc., sono essenzialmente comunicativi. Anche chi rifiuta polemicamente la socialità lo fa in rapporto - appunto polemico - con altri.

Sulla scorta di queste premesse Francesco Russo, docente di Antropologia della cultura e della società alla Pontificia Università della Santa Croce di Roma, svolge sull’intersoggettività l’arguta riflessione Antropologia delle relazioni. Tendenze e virtù relazionali (Armando, pagine 154, euro 15,00), di gradevole lettura e accessibile anche ai non specialisti, focalizzando le umane inclinazioni e tendenze, che richiedono un perfezionamento virtuoso nell’esercizio della libertà, in modo che l’autocoltivazione personale consegua il bene personale e comune. Ancorandosi specialmente a pensatori classici (soprattutto Aristotele e Tommaso, ma anche Cicerone, Seneca e altri) e con alcuni riferimenti alla filosofia moderna e contemporanea, nonché tenendo conto dei risultati delle scienze umane, vengono così considerate le virtù relazionali - e le deviazioni viziose correlative - quali la pietas, l’observantia e la dulia (le quali riconoscono l’eccellenza e il merito altrui), l’obbedienza, la gratitudine, la vindicatio (che non è vendetta bensì reazione al male la quale, per esempio, vuole il pentimento del malvagio e il suo bene morale in generale), la liberalità, la veracità, l’amichevolezza.

Per esempio, la pietas riguarda la relazione con le proprie origini: i propri genitori, il proprio luogo di provenienza (anche dal punto di vista paesaggistico), le proprie radici, la propria casa (con i sapori dei cibi consumati, con i suoni varie volte riecheggiati e così via), il proprio Paese, la propria cultura-tradizione (se è buona e senza cadere nell’attaccamento fissista del tradizionalismo), ecc. Il fenomeno contrario, in sintonia con Kierkegaard e Heidegger, è lo spaesamento, il non sentirsi a casa nel mondo, la perdita del vincolo con le proprie radici. La pietas distoglie dall’egoismo perché ricorda che dobbiamo molto ad altri e spinge a rendere onore e gratitudine. Nella gratitudine, poi, ciò che conta è soprattutto la volontà di contraccambiare e la riconoscenza, connessa con la memoria, come ben espresso in tedesco dai termini danken (ringraziare) e gedanken (ricordarsi). E chi ad ogni costo si affretta a restituire non ha l’animo di un uomo grato, bensì di un debitore che vuole liberarsi di un peso. E l’obbedienza virtuosa all’autorità, con Gadamer è concepita non come abdicazione della ragione, bensì come atto con cui la ragione stessa riconosce che un altro ci è superiore in giudizio e intelligenza.

Giacomo Samek Lodovici

(pubblicata su “Avvenire”, domenica 5 maggio 2019, p. 24)